Ma com’è triste la Trieste del 1918 diventata italiana - Il Piccolo Trieste

2022-05-19 08:28:05 By : Ms. Jenny Tan

In un libro del 1919 il reporter Maffio Maffii descrive la città occupata delle truppe vittoriose

Come si svolgeva la vita a Trieste nei primi giorni dopo la fine della Grande Guerra? Un testimone dell'epoca fu Maffio Maffii, giornalista e scrittore fiorentino arruolatosi volontario nel 1915. Oltre a partecipare alle azioni sul fronte, Maffii fu corrispondente di guerra e col collega Mario Appelius seguì le vicende belliche a bordo delle navi della Marina Militare, scrivendo una serie di articoli in seguito raccolti e pubblicati. Uomo dal futuro complesso e difficoltoso (aderirà al fascismo e verrà coinvolto nel processo di epurazione, riprendendo negli ultimi anni di vita l'attività giornalistica), Maffii descrive nel suo “La vittoria sull'Adriatico”, un libro pubblicato nel 1919 a Milano per i tipi di Alfieri&Lacroix, e ripubblicato nel 2007 nelle edizioni digitali del Cisva (Centro interuniversitario internazionale di studi sul viaggio adriatico) a cura di R. Daniele. In quel testo - che forse meritrebbe di essere conosciuto di più - l’autore racconta quanto osserva a Trieste nei primi giorni del novembre 1918, subito dopo l’entrata delle truppe italiane, un periodo poco ricordato sia nelle cronache che nelle memorie. «Anzi tutto - scrive Maffii -, bisogna tener presente che gl'italiani delle terre liberate hanno fame. Anche a disporre di 150 corone al giorno - e tale fortuna non potevano averla se non le classi più ricche - una famiglia di poche persone difficilmente poteva riuscire a cavarsi la fame». Maffii si aggira per la città, colpito prima di tutto dai punti di ristorazione ed alloggio.

«Voi sedete nel restaurant di un grande albergo, come l'Excelsior, da pochi giorni ribattezzato, da i proprietari tedeschi, Savoia. Sfarzosa luce elettrica. Tappezzerie pesanti, ma comode. Lusso di cattivo gusto, ma lusso. Molti tavoli adorni di bionde donne eleganti, scollate e profumate. Parlano sottovoce coi loro amici di nazionalità indecifrabile - abito borghese di buon taglio, monocolo, ghette, cravatta sapiente - forse perché non amano che i vicini riconoscano il linguaggio adoperato. Ci sono i fiori, sulla tovaglia; ma la tovaglia non è di bucato: bisogna risparmiare il lino e il sapone. Ci sono le sottocoppe di Boemia, attorno al vostro piatto; ma la salvietta è di carta. Nonostante questa prima impressione spiacevole d'un'impalcatura esteriore rimasta sontuosa, ma di un'intima sostanza scaduta di qualità e di quantità, tuttavia v'illudete, leggendo la lista dattilografata, sorretta dal piedistallo argentato accanto ai vostri bicchieri, di fare un pasto almeno discreto».

«Qualche cucchiaiata d'acqua calda con tre legumi dentro, un pezzetto di gelatina di gusto e composizione indefinibili, quattro centimetri quadrati di carne tenace sperduti in una poltiglia di orzo, quattro prugne salvatiche bollite, niente pane, un caffè fatto "di surrogato di surrogato di caffè", un'ampollina di vinello acido; è un pranzo che vi mette un nauseabondo languore dolciastro nello stomaco, è un pranzo che non vi nutre. Eppure è un pranzo da nababbi. Vi costa 37 corone. Voi pensate allora con raccapriccio: Come mangia e che cosa mangia la povera gente? E vi spiegate il perché delle facce cadaveriche incontrate per via, il perché dell'aspetto malaticcio dei bambini poveri e dei ragazzi che gironzano nel porto in cerca d'una valigia da portare, d'una moneta da guadagnare, d'una mela da addentare».

Quale è la risposta datasi dallo scrivente? «L'Italia deve dunque fare, nei paesi liberati, immediatamente, una politica alimentare. Bastano intanto pochi g. eneri; riso, per esempio, e grassi. Ma debbono essere inviati subito. Debbono essere distribuiti equamente ».

Aggirandosi nella città giuliana, l'osservatore annota il comportamento dei vecchi nemici: «Ora, la vita triestina è una vita troppo assurda, troppo promiscua perché certi accomodamenti e certi mascheramenti e certi contatti possano durare un sol giorno di più del necessario. La coccarda jugoslava è un nastrino di seta bianco-rosso-bleu, non costa che una corona, si può acquistare a tutti i bancarelli ed è facilissimo appuntarla al berretto per coprire il trofeo imperiale austro-ungarico. Ora, una quantità di ex-ufficiali, di ex-sottufficiali, di ex-cadetti, di ex-soldati, di ex-marinai dell'esercito che abbiamo vinto dopo quattro anni di durissima guerra e che non ha ragione di adorare i nostri begli occhi, gira tranquillamente, indisturbata, per le strade, per i dintorni, per i restaurants, per i caffè. Si sofferma sulle banchine del porto ad ammirare le nostre navi, le nostre siluranti, i nostri mas. Ve la trovate accanto in tram, alla tavola apparecchiata, al tavolino della birreria; dorme nella camera d'albergo accanto alla vostra; fuma la sigaretta nell'hall quadrilingue, sdraiata nella poltrona di cuoio in faccia alla vostra».

Maffii descrive anche quanto vede nelle vetrine di Trieste: «Abiti comuni da uomo: 2.200 corone. Abiti eleganti da signora: fortune da capitalisti. Un pezzo di sapone da toilette: 14 corone e 50 heller. Ma non vi lavate la mani con quel sapone! È fatto di sostanze chimiche; è senza olii e vi scortica la pelle. Un negozio di commestibili: avreste creduto di scorgere allineati, sui palchetti della mostra, i generi mangerecci e i cibi raffreddi che siete abituati a vedere dovunque, anche in tempi di carestia. Qui, no; qui non vedete che scatole: scatolone, scatolette, scatoline di cartone, dadi, tubetti, piramidi, compresse. Leggete le scritte: polvere per fabbricare il latte, polverine imitanti il cacao per far la cioccolata, essenze per fare il brodo, radiche péste da tostare come il caffè, foglie secche di piante selvatiche da scottare come il tè, pasta gialla per fare la maionese… Alla prima, v'assale l'idea che l'insegna della bottega sia un errore e che si tratti d'una farmacia. Poi v'accorgete che non è una farmacia, è un emporio di delicatessen».

Allo stesso modo, il testimone d'origine toscana rimane colpito dalle vetrine delle librerie: «Vi soffermate davanti ad un libraio: vetrina commovente. Tutte le "novità" editoriali italiane del 1912 e del 1913 vi stanno allineate davanti agli occhi; ma hanno le copertine giallicce, le costole polverose, i margini delle pagine intonse leggermente ammuffiti. Sono i libri scomparsi durante la guerra dalla vista del pubblico, esiliati nelle casse, nascosti nelle cantine, internati nei retrobottega per far posto alle edizioni di Lipsia, di Dresda, di Vienna, di Monaco; libri che oggi ritornano improvvisamente alla luce, cacciando ora, alla lor volta, nell'ombra, i trionfatori di ieri. Vicende guelfe e ghibelline negli scaffali delle librerie…».

Il reporter d'occasione descrive anche quanto ritrova della sede del giornale cittadino, e quanto suscita in lui la visione degli edifici triestini: «Vi sono a Trieste - pochi, perciò rimarcabili - i palazzi taciturni, i palazzi tristi. Non parlo di quelli semi-distrutti, come la sede del Piccolo in Piazza Goldoni, che reca ancora, sui ruderi anneriti dall'incendio, i segni della rabbia poliziesca che v'appiccò le fiamme la sera stessa della nostra dichiarazione di guerra e poi tagliò a sciabolate le tubature dell'acqua distese dai pompieri accorsi a spegnere il fuoco. Parlo dei palazzi intatti e massicci, dal portone chiuso, dalle finestre chiuse, che non hanno drappi ai davanzali, che non hanno bandiere ai poggiuoli, che non hanno sorriso alle facciate. In mezzo all'orgia dei tricolori, il loro silenzioso disdegno ha qualche cosa di sinistro. Dà freddo. Fa dubitare che sieno proprio e completamente disabitati. Alcuni hanno solo l'aria un po' corrucciata, come in una festa da ballo le ragazze che nessuno invita a danzare. Hanno altri la parvenza iettatrice delle persone che non risono mai, neppure in mezzo ad una comitiva gioconda».

Una descrizione particolare è infine riservata al Castello di Miramare, definito «Il più notevole di tutti, fra questi palazzi chiusi e muti»: «Avvolto nel verde metallico dell'immenso parco, lancia verso il cielo la sua torre che sembra un'appendice architettonica delle più inutili, dal momento che l'asta del suo torrione non ha bandiera. Le sue finestre bifore mostrano gli scuri di legno ben serrati; e, nel biancore della facciata, somigliano agli occhi di certi visi pallidi ed equivoci che vi guardano con le palpebre abbassate, per non darvi sospetto e veder meglio… Perché non s'interrogano, i palazzi taciturni?». (Nella foto grande, il genereale Patitti di Roreto passa inrassegna le truppe del presidio di Trieste nel dicembre del 1918)

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