“La bella estate” a 20 anni. Stagione dell’esistenza - CorrieredelMezzogiorno.it

2022-09-03 03:17:09 By : Ms. GREAT SAFETY

Non so se sia il libro della vita, ma sicuramente il libro di un’estate, quella dei miei vent’anni. Quando ho letto La bella estate avevo più o meno l’età della protagonista. Ero coetanea di Ginia ma non lo sapevo: a quell’età credevo che tutti avessero vent’anni e che i vent’anni durassero per sempre. Oltre quella soglia risiedevano i vecchi, prima di quell’età i bambini. I miei coetanei erano per me l’umanità intera, una sineddoche del mondo. Voglio dire che quella dei vent’anni è un’età totalizzante, in cui sembra che tutto debba accadere per sempre, e sempre allo stesso modo. Ero convinta, pur senza dirmelo, che i miei compagni di università sarebbero rimasti lì per me in eterno, che i miei capelli sarebbero stati castani in ogni stagione, che i jeans a vita bassa non sarebbero mai passati di moda. Che l’estate, insomma, fosse una condizione immutabile dell’anima e, soprattutto, del corpo, così come il clima costante e privo di stagioni della fascia equatoriale. La giovinezza era per me una sorta di tropico dell’esistenza.

A vent’anni non avevo mai freddo, giravo per Napoli con una giacchetta assai sdrucita di pelle che avevo comprato a Resina, al mercatino dell’usato che già generazioni prima della mia avevano saccheggiato in cerca di abiti che andassero in manifesta controtendenza rispetto alle mode del momento. Non è possibile che negli anni Novanta gli inverni fossero meno rigidi rispetto a quelli attuali nella mia città, eppure ricordo cassetti del tutto privi di alcuni capi di abbigliamento quali: canottiere, calze di lana, giacche e a vento e maglioni. Non esisteva a quel tempo l’inverno.

Nel 1994 seguivo all’Università Federico II il corso di Letteratura italiana del professor Vittorio Russo, la parte monografica dell’esame verteva su Cesare Pavese. C’erano in bibliografia tutte le sue opere, poesie e romanzi, le lessi avidamente e da allora il ritmo occulto che innervava la sua letteratura mi sono rimasti nell’orecchio e forse un po’ li ho fatti miei, come un giro di do, che torna identico e diverso in mille canzoni. Tadàn, tadadàn, tadadà. Bisogna fermare una donna / e parlarle e deciderla a vivere insieme. Sono i versi di, Lavorare stanca, una delle sue poesie più note ma la stessa cadenza ritorna anche nelle prose di Pavese, nei racconti, nei romanzi, nel diario, costante come un battito di cuore, a ricordarci quanto di noi è terreno, quanto è umano, quanto è fatto di carne, di sangue, di vigna. Quanto di noi è mortale.

«A quei tempi era sempre festa»: tadàn, tadadàn, tadadà, è l’incipit di questo romanzo breve. E quei tempi sono l’estate, è il tempo della festa. Nel 1994, l’aula del professor Vittorio Russo era sempre gremita, nei corridoi del dipartimento di Lettere si commentavano gli arresti di Tangentopoli, nelle assemblee si paventava la discesa in campo di Berlusconi, durante l’occupazione si cantava il rap dei 99 Posse ed era sempre estate. Era estate perché tutto stava accadendo e, guada caso, intorno a noi. Perché la vecchia politica doveva lasciare il posto alla nuova politica, quella che avremmo fatto noi. Era estate perché nonostante i corsi da seguire e gli esami da studiare, ci si svegliava tardi e si usciva tutte le sere, era estate perché gli amori iniziavano e finivano, senza lasciare lacrime. Era estate perché le lacrime asciugavano da sole, come evaporate al caldo di un tempo ancora da venire. Era estate perché non avevo mai freddo ed erano i miei vent’anni. Ed era come andare in bici, in una folle corsa senza mai immaginare un burrone, non c’era niente ancora che mi avesse piegata, e mi sentivo indomita e proprietaria di chissà quale segreto, chissà quale luce interiore che come l’ago di una bussola mi avrebbe sempre indicato il mio nord, la direzione da seguire. Non conoscevo ancora la paura, il senso di perdita, la desolazione di aver sbagliato strada nella vita, e l’angoscia che per quell’errore non ci fosse ritorno.

Forse l’estate è questo: è non avere mai paura di andare.

Insomma, ero come Ginia, la protagonista del romanzo. Avevo avuto anche io la mia Amelia, una ragazza bella e forte (almeno ai miei occhi) che una sera d’estate mi aveva baciato sulle labbra e mi aveva lasciata piena di dubbi e di emozioni. Avevo avuto anche il mio Guido, il biondino che ti chiede l’amore e a cui non vedi l’ora di consegnarti, perché vuoi che l’amore ti illumini come un faro, proprio te in mezzo a tanti, che ti sposti di peso dal luogo in cui ti trovi e ti lasci un chilometro più in là, oppure anche un centimetro. Le Amelie e i Guidi mi facevano battere il cuore come a Ginia, eppure niente mai nella luce accecante dei vent’anni mi è potuto sembrare irreparabile. Tutto quello che mi si rompeva tra le mani era una bolla di sapone, il gioco labile di un bambino che domani o solo tra un minuto si può rinnovare identico, ancora e ancora. Non c’erano ultime volte, nei vent’anni, c’erano solo inizi. Come per Ginia: un amore che finisce è come il primo vento d’autunno, come il precoce imbrunire dell’ora solare. Tutto sta ad aver fiducia e aspettare un’altra estate, che di nuovo, certamente, arriverà. «Verrà di sicuro», si dice Ginia in mezzo al fango e alla neve, delusa e smarrita dopo che Guido l’ha lasciata, «le stagioni ci sono sempre». Forse invecchiare è questo, allora: non avere più coscienza delle stagioni. Non esultare più per gli ultimi giorni di scuola o per la fine della sessione estiva degli esami universitari. Non attendere l’inizio della villeggiatura, non sentire nell’aria il profumo dell’autunno come foriero di lusinghe e promesse, non addobbare più l’albero di Natale con la segreta speranza di trovarvi il regalo desiderato, non annusare l’aria in una notte tiepida cercando indizi della primavera.

La bella estate è il romanzo della giovinezza. E bisognerebbe renderne la lettura obbligatoria a tutti quelli che hanno quell’età, soprattutto oggi, nell’epoca in cui si è giovani all’infinito, o si pretende di esserlo. Perché invece purtroppo non è così: la giovinezza inizia e poi finisce, e al contrario delle stagioni non ritorna. Eppure, rileggendo questo romanzo oggi, ci ho ritrovato intatto tutto quello che erano i miei vent’anni, non come un album di fotografie, ma come una capsula del tempo. Nei pensieri di Ginia, nei suoi turbamenti, nelle sue gioie improvvise ho ritrovato la mia giacchetta marrone molto sdrucita, i miei capelli castani, il viso un po’ più tondo, il cortile della facoltà di Lettere, imbevuto di sole, con dentro tutti i miei compagni. Ci ho trovato la paura e il desiderio di esser nuda per la prima volta agli occhi dell’altro, e quella domanda, implicita in ogni relazione affettiva: ti piaccio, sono bella, mi vuoi un po’ di bene? E poi l’amore, il desiderio, il senso di colpa che amore e desiderio generano, l’idea che il corpo possa essere allo stesso tempo barriera e viatico per incontrare l’altro. Per questo La bella estate è un romanzo che non finisce, ma si rinnova ciclicamente, come le stagioni.

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