Giovanni Antonucci ricomincia da tre con la raccolta di aforismi "Vizi (molti) Virtù (poche)" - Secolo d'Italia

2022-09-17 04:58:40 By : Ms. helen lee

E’ appena uscito, per i tipi di Universitalia, la terza raccolta di Aforismi di Giovanni Antonucci, docente di Storia del teatro e dello Spettacolo, scrittore, critico e drammaturgo, intitolata: “Vizi (molti) Virtù (poche)”, con una densa Introduzione di Rocco Familiari che volentieri pubblichiamo.

E tre…! Non è il refrain di una filastrocca, ma il numero d’ordine, il tre appunto, delle raccolte di aforismi pubblicate finora da Giovanni Antonucci, il quale, in piena quarta giovinezza…, è un autentico vulcano in eruzione!

Negli ultimi cinque anni infatti, oltre ai densi e sempre interessanti articoli per la rivista “Teatro Contemporaneo e Cinema”, alla quale collabora regolarmente dall’inizio, i contributi ai numerosi convegni a cui partecipa in qualità di relatore, le presentazioni, le recensioni, eccetera, eccetera, ha scritto ben tre volumi di aforismi, frutto non solo di un lavoro paziente e sapiente di ricerca, ma anche, anzi soprattutto, di un’inventiva sorprendente. Il primo aveva un titolo molto suggestivo, “Bolle di sapone”, ripreso (come precisato da Antonucci stesso), da Mario Praz, ma il famoso anglista si sarà ricordato di un pensiero di Roth – il… “Grande”, Joseph cioè, l’autore de “La cripta dei cappuccini” – “io potrei scrivere stupende bolle di sapone variopinte, autentiche bolle d’arcobaleno, ma soltanto le donne e quanti sono rimasti bambini se ne compiacerebbero, gli uomini invece sostengono di occuparsi esclusivamente di cose eterne”. Lo scrittore austriaco chiama in causa, nella prima parte, la maggiore autenticità e capacità di sorprendersi di donne e bambini, rispetto agli uomini ai quali è riservato un trattamento diverso…: nell’inciso finale è sottesa infatti quella che si potrebbe definire la “mission” dello scrittore di aforismi, pungere, facendola scoppiare, la “bolla di sapone” in cui si rinchiudono gli “uomini che sostengono di occuparsi esclusivamente di cose eterne”, che è spesso il modo con cui evitano di occuparsi delle cose di ogni giorno, per loro natura non eterne…. Il volume, accolto benissimo, era stato edito da Pagine nella collana I libri del Borghese, nel 2017.

Secondo una tradizione per dir così classica, l’aforisma (dal greco aforismòs, definizione) deve, in poche parole (per Bufalino: un aforisma benfatto sta tutto in otto parole) racchiudere una “massima”, mentre in questa epoca di sbracamento generale, la maggior parte di quelli che vengono fatti passare per tali contengono, il più delle volte, in troppe parole, soltanto una “minima” (e pure questo potrebbe essere un aforisma…). Anche se poi i “Minima moralia” di Adorno tengono saldamente il campo; ma in quel caso la voluta modestia è soltanto un’astuzia retorica.

Bisognerebbe tenere sempre a mente quanto affermava Kraus, il principe del genere – insieme con Oscar Wilde e, più indietro, La Rochefoucauld – “ora che abbiamo ottenuto la libertà di pensiero, occorrerebbe il pensiero”.

E’ questa la dannazione dell’aforisma, o presunto tale, che l’uno tira l’altro, irresistibilmente, come le famose ciliegie…

E’ forse il genere letterario più antico. Per aforismi si esprimevano gli oracoli, i primi filosofi greci, celeberrimo il gnoti se autòn (conosci te stesso), al quale con sovrano cinismo Antonucci aggiunge una coda: “fossi matto!”, i medici, da Ippocrate a Galeno, alla scuola salernitana (che osava spingersi al limite del consentito: coitus medicina catharri), e così perfino il Padreterno: in fondo cosa sono i dieci comandamenti se non degli aforismi… coattivi? E il Figlio, a sua volta, si esprimeva per parabole, sorta di aforismi al cubo… Sotto questo profilo non fa eccezione il “Corano” con le Sure, peraltro spesso oscure e inquietanti, o il “Talmud”. Il “Libro dei libri” contiene addirittura una intera sezione di “Proverbi”, alcuni diventati slogan di successo, altri dimenticati, espressione comunque, la maggior parte, del ristretto orizzonte culturale degli estensori.

Ma è anche il genere più moderno: i twitter sono, o vorrebbero essere, degli aforismi. Il problema è che i 140 caratteri che si scambiano ogni nanosecondo miliardi di utenti in tutto l’universo, per la massima parte non contengono pensieri, riflessioni, ma borborigmi verbali…, meri vagiti. Implacabilmente icastico Antonucci: “Tweetto ergo sum”…

Per restare su un cotè elevato, aforismi, sublimi, sono i “Pensieri” di Pascal e molti dei “Saggi” di Montaigne. Schopenhauer, Nietzsche, il “zibaldoniano” Leopardi, fra i massimi pensatori di ogni tempo, si sono espressi al meglio anche per aforismi (filosofici, pour cause). Come peraltro, in epoca a noi prossima, il Ludwig Wittgenstein autore di quella celebre “settima proposizione elementare” del suo “Tractatus logico-philosophicus”, più citata che compresa: “di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere” (che Antonucci riporta, giustamente, in questa sua ultima raccolta).

Scendendo, non di livello, anche se certe vette sono irraggiungibili, ma temporalmente, aforismi sono le “Fosforescenze” di Boine (affini, per levità alle “Bolle di sapone”…) o le “Scorciatoie” di Saba, i “Fuochi fatui” di Sbarbaro, e le “Schegge” di Papini. In questi giorni sono tornati di drammatica attualità i “Pensieri spettinati” di Stanislaw Jerzy Lec, per il suo pessimismo che potremmo definire distopico, di cui è emblematico questo assaggio: “un tempo gli uomini saranno fra di loro fratelli e ricominceranno da Caino e Abele”. Immagino sia lo stesso tempo ipotizzato da Einstein quando affermava che non sapeva quale sarebbe stato l’esito di una terza guerra mondiale, necessariamente atomica, ma era certo che nella quarta i superstiti si sarebbero affrontati con le clave… A proposito di pessimismo, merita un posto di rilievo la definizione dello scultore peruviano Joaquin Roca Rey, padre del bravissimo attore Blas (che ha debuttato con il mio “Don Giovanni e il suo servo” diretto da Trionfo nel remoto 1982): “un ottimista è soltanto un pessimista informato male”.

Da non dimenticare, in questa carrellata, gli “Errori” di Flaiano, che sembrano voler adombrare nel titolo la famosa tesi di Popper che la verità è un errore ancora non conosciuto (e anche questo è un aforisma…), tesi che riecheggia nelle definizioni di aforisma di Papini: “una verità detta in poche parole, epperò in modo tale da stupire più di una menzogna” e di Kraus: “l’aforisma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità, o è una verità e mezza”, per arrivare alla “teoria generale” di quel mostro di erudizione che fu Umberto Eco, il quale coniò addirittura l’aforisma “cancrizzante”, contenente cioè un significato plausibile sia in una versione data sia in quella opposta, vale a dire l’interscambiabilità fra verità e menzogna. Eco ha mutuato termine e concetto dalla musica, dove il canone retrogrado, o cancrizzante appunto, rovescia il tema, come nell’esempio forse più celebre della letteratura musicale, la composizione di Guillaume de Machaut, sicuramente nota al fine musicofilo Antonucci: “Ma fin est mon commencement et mon commencement est ma fin”, tema ripreso dall’ “Ecclesiaste”: “quello che è stato è lo stesso che sarà”, e trasmesso poi in un certo senso all’Eliot dei “Quattro Quartetti”: “In my end is my beginning, in my beginning is my end”.

L’aforisma è una forma talmente in sintonia col nostro sistema percettivo che tutti noi, quando leggiamo un articolo, un saggio o anche un romanzo, cerchiamo avidamente di carpirne l’essenza attraverso una frase-chiave, un aforisma appunto. Un esempio sommo per tutti: de “L’Idiota” di Dostoevskij, la maggior parte di chi lo ha letto (o anche no…) cita l’affermazione che “la bellezza salverà il mondo”, bellissima frase, di enorme suggestione, salvo il piccolo dettaglio che non esiste…, nel senso che il principe Mischkin, l’idiota del titolo, non l’ha mai pronunciata: gli viene rivolta per due volte, nel corso del racconto, la domanda se la bellezza potrà salvare il mondo, ma egli, e perciò Dostoevskij, non risponde mai.

Antonucci è dissacrante, cinico, disincantato, capace di rovesciare luoghi comuni o di illuminare improvvisamente di una luce diversa, verità che si credevano acquisite una volta per sempre in una data forma.

E’ spinto da una curiosità intellettuale insaziabile, forse la caratteristica dominante della sua personalità, capace di cogliere spunti dovunque, dai molti libri letti “la paura è la cosa di cui ho più paura” (da Montaigne) come dai muri di Roma: “Il popolo non vota, fotte” (che può anche essere un avvertimento ai competitor delle nostre frequenti elezioni…). Uno scrittore che Antonucci ammira molto è Flaiano. Riprendendo un aforisma nel quale l’autore di “Un marziano a Roma” affermava che la nostra è una letteratura di giornalisti, Antonucci aggiunge “veline, cantanti, attori, pubblicitari, ex terroristi”. E direi che ha dimenticato i sarti, i calzolai e i cuochi… (che hanno sostituito ormai gli obsoleti “santi, poeti e navigatori”…). Questi che ho appena ricordato appartengono alla prima raccolta, “Bolle di sapone”, il cui incipit  è folgorante, e capzioso: “chi ha una certezza, me la spieghi”; alzi la mano, non chi ha una certezza, immagino siano in tanti, ma, e qui sta la malizia dell’autore, chi è in grado di spiegarla…! E, a seguire: “La carne è debole, l’anima anche”, straordinario esempio della capacità di Antonucci di rovesciare i luoghi comuni, così come: “chi dorme si riposa”, o: “domani è sempre lo stesso giorno”. Come dire: Pirrone versus Rossella O’Hara…, vince naturalmente lo scettico Pirrone.

Ma, se qui siamo ancora su un versante per così dire leggero, del calembour, sempre intelligente peraltro, ecco che subito dopo la capacità di rifare il verso alle frasi fatte apre spaziosi orizzonti di pensiero.

“Nessuno tocchi Caino. Abele invece sì” fa giustizia di certo buonismo a buon mercato, sul quale Antonucci ha da dire la sua: “il buonismo è il contrario della compassione”.

“Dio è morto, Maometto no”, dice molto più di un ponderoso saggio, sulla irresistibile tendenza dell’Occidente a castrarsi, vedi la bocciatura alla proposta di inserire nella Carta Costituzionale europea il richiamo alle radici cristiane dell’Europa, che non era espressione di bigottismo, ma una orgogliosa rivendicazione culturale. E l’epitaffio di Antonucci è implacabile: “una civiltà che non crede più in se stessa è destinata a scomparire”.

Ancora: “La tragedia del nostro tempo è che lo stupido pensa”, che ha il tono dell’”Apocalisse” di Giovanni! O, meglio, la gravitas solennemente iettatoria del già ricordato “Ecclesiaste”, soprattutto nella seicentesca traduzione del Diodati: “vi è tempo di nascere e tempo di morire”.

“La psicanalisi ha reso inquietante la normalità”, e con ciò sono serviti Freud and friends…

Fra quelli per così dire di carattere sociologico, indimenticabile: “Una puttana sterile resta una puttana. Una puttana feconda diventa una madre esemplare.” Il sottinteso è che di queste “madri esemplari” ce ne devono essere tante, stando al numero di figli di puttana in circolazione…

“Il cielo può attendere, gli uomini no”. Riecheggia il Keynes il quale affermava che è inutile prendere provvedimenti per il lungo periodo, perché allora saremo tutti morti…

Un posto di rilievo lo occupano quelle che attengono al mondo dello spettacolo, nel quale Antonucci, da grande storico del teatro e critico,  sguazza ovviamente a suo pieno agio: “Aspettando Godot. Ma se per caso arrivasse?” – quante volte ce lo siamo chiesti!

Con il secondo volume di “detti memorabili”, “Le grandi e piccole verità a uso quotidiano”, pubblicato da Universitalia qualche anno dopo, Antonucci si dava in qualche modo un metodo, raccogliendo le proprie riflessioni e quelle pescate nell’immenso serbatoio della sua cultura e della sua memoria, per categorie. Con le “Bolle di sapone” infatti il lettore era costretto a crearsi un proprio itinerario, essendo il metodo scelto dall’autore assai simile a quello descritto dal suo maestro Giovanni Macchia (nella splendida introduzione alla raccolta “I moralisti classici, edita da Garzanti nel 1960) a proposito di un grande scrittore di aforismi, La Bruyère: “non disdegna né la massima, né il ritratto, né l’impressione, né l’osservazione delle immagini artificiali e transitorie e mette tutto insieme senza curarsi del disegno generale”.

Le “Grandi e piccole verità” si dispiegano invece secondo un “disegno generale”, una precisa mappa, avendo l’autore la pretesa, niente affatto… pretenziosa, di orientare la nostra fruizione. Da qui la scelta di raggruppare gli aforismi, suoi e di altri pensatori, per tema, coerentemente con l’intenzione di un libro che vuole essere un manuale d’“uso quotidiano”, come recita la seconda parte del titolo. Manuale, aggiungerei, per tenere in allenamento il cervello… e, da “massacratore di miti”, per citare ancora Macchia, sfatare una serie di luoghi comuni che infestano, come le erbacce, ogni aspetto del vivere.

Il riferimento al grande francesista non è casuale. La verità è che con il secondo volume (e soprattutto con quest’ultima raccolta che ne è il seguito ideale) Antonucci si iscrive anche lui nella mai abbastanza onorata cerchia dei “grandi moralisti”.

E’ abbastanza singolare che, essendo costoro nati “quando si è persa la fiducia nell’uomo” (sempre Macchia), oggi, che quella fiducia non è certo aumentata, ma semmai fortemente diminuita (anche per i tragici avvenimenti che si svolgono a poca distanza da noi, nel cuore dell’Europa cristiana), sembrano scomparsi. Del resto, già Moravia e Zolla, che curarono il sequel di quel fortunato volume (“I moralisti moderni”, sempre nel ’60 e sempre per Garzanti) faticarono a trovare dei nomi che potessero incarnare il modello. Ma forse era sbagliato l’approccio: il moralismo non si fonda, contrariamente a quanto sostengono i due intellettuali (che più diversi non si potrebbe immaginare, lucido e razionale l’uno, cultore di scienze esoteriche l’altro), sul “disprezzo di sé e degli altri.” No, il moralista al massimo prova indignazione, ma, non avendo fiducia nei propri simili, mantiene un atteggiamento cinico, in fondo tollerante, verso gli altri e se stesso. Non pretende infatti di essere migliore, si limita a registrare il peggio. O, come dice ancora Macchia: “si limita a notare la contraddittorietà dell’esistere, le luci e le ombre di tutto ciò che ha sotto gli occhi.”

Altrettanto singolare poi che nessuna delle due raccolte ricordate comprenda detti di Nietzsche (l’“immoralismo” del creatore dell’Ubermensch induce a prenderne le distanze…?), e che quella dei “Moralisti classici” parta da Machiavelli, escludendo i grandi moralisti antichi (Seneca per esempio).

Il “moralista” Antonucci dà invece al filosofo tedesco, giustamente, lo spazio che merita, pur nell’economia generale di una raccolta che si muove su un amplissimo arco temporale e copre l’intero pianeta culturale, muovendosi disinvoltamente fra diversi livelli. Tanto per esemplificare, si va da Seneca appunto, al “Golia” Abelardo (quanti sanno che “goliardo” significava in origine essere seguace del “Golia” – per forza d’ingegno – Abelardo?) ad Achille Campanile, da Dante a Ceronetti, da Cicerone a De Crescenzo o Trilussa.

Senza mai rinunciare allo stile che gli è proprio anche come commediografo – Antonucci ha alle spalle una prestigiosa carriera, oltre che di docente, come ho già ricordato, di saggista e critico, teatrale, letterario e finanche di arte figurativa, ma è pure un affermato autore – e cioè l’uso di un linguaggio colto ed essenziale al tempo stesso, capace però di graffiare quando occorra, pesca nell’immenso serbatoio della sua memoria di studioso e di frequentatore dei generi più disparati, quanto gli serve per lo scopo che si è prefisso: raccogliere suggerimenti preziosi, perle di saggezza, avvertimenti, dichiarazioni d’intenti, comandamenti, che diventano un godibilissimo e imprescindibile baedeker per aiutarci, senza troppi incidenti di percorso, nell’intricato mondo in cui un dio generoso e anche dispettoso ci ha messi a dimora.

Media, Politica, Economia e Finanza, Tecnologia, Scienza, sono i temi della prima parte, Religione, Giustizia, Cultura, Vizi e Virtù, Amore e Sesso, quelli della seconda. Vi è anche un utilissimo indice dei nomi per chi voglia andare… a caccia, sicuro di stanare subito la preda preferita. Poiché il volume, come anche “Bolle di sapone”, è esaurito, mi sembra opportuno riportare in questa sede alcune delle più significative riflessioni in esso contenute.

Se si riuscisse a introiettarle tutte, sarebbero un formidabile strumento educativo, ma, come pessimisticamente teme l’autore, citando Cechov: “ci sono mille stupidi per ogni persona intelligente”, per cui è cosciente che il suo sforzo risulterà purtroppo in larga misura vano.

Il volume si apre, riportando nella sezione Media una notizia di cronaca in sé non particolarmente eccitante: “pompiere recupera da un tetto un gatto morto che lo graffia al viso”. E’ esemplificativo di uno dei modi con cui Antonucci fa propri anche detti altrui, aggiungendo cioè una chiosa che fornisce una chiave di lettura del tutto originale, addirittura surreale, come, in questo caso, la fulminante domanda: “prima o dopo?” Sembra di sentire, dopo un attimo di esitazione, l’irresistibile la risata che la sapienza “teatrale” di Antonucci sa suscitare.      

Folgorante quello che apre la sezione Politica (la più estesa, a ragion veduta, pervadendo essa ogni aspetto dell’esistenza) : “un politico è un politico, due politici sono due politici, mille politici una iattura.” Insiste, per sottolineare la sua non esaltante opinione della politica, soprattutto dei politici, anche qui con un riferimento teatrale: “la commedia di Pirandello ignota a tanti nostri politici: Il piacere dell’onestà.”

Geniale il modo in cui, utilizzando una “categoria” teatrale, riesce a far emergere il lato oscuro di una pericolosa corrente filosofica: “Il pensiero unico è un monologo di massa.”

Citando Ibsen (del quale, per inciso, Antonucci ha curato l’edizione delle opere complete per Newton Compton): “Nemici del popolo sono tutti coloro che non accettano il politically correct”.

Cartello segnaletico che andrebbe appeso in bella vista nei seggi elettorali…: “Coloro che parlano continuamente di bene comune mirano di solito al tuo bene privato.”

Neppure l’esordio della sezione Economia e finanza  lascia adito a dubbi: “l’economia è la scienza più inesatta: sbaglia quasi sempre le sue previsioni “, “Gli economisti sono coloro che scoprono le crisi solo dopo che sono scoppiate”. Ancora: “gli economisti scambiano, spesso e volentieri, le loro opinioni per verità rivelate”. E la cosa è assai preoccupante dato che: “L’economia, ‘lugubre scienza’, come la definiva Carlyle, è diventata la protagonista delle nostre vite”.

Nella sezione Tecnologia, prevale l’allarme per il futuro dell’umanità: “L’errore della nostra società è credere che la tecnologia non sia un mezzo, ma un fine”. Come dire, Heidegger a Severino condensati in pochi lemmi.

Nella sezione Scienza il raffinato intellettuale Antonucci usa gli strumenti di cui dispone per mettere in guardia da facili confusioni: “Lo scientismo è la più opprimente ideologia della nostra epoca. Pretende di spiegare tutto: vita, copula e morte … nasconde che ogni nuova scoperta della scienza apre un nuovo mistero.”

“L’errore è la matrice della conoscenza.” Con formidabile capacità di sintesi, mette insieme un pensiero di Nietzsche e il principio-base della concezione del progresso scientifico di Popper. Infine, un’esclamazione di sconforto che tutti noi potremmo lasciarci sfuggire: “Che tragedia essere alla mercé degli algoritmi!”

L’autentica religiosità, che non è bigottismo, dell’autore, emerge dai pensieri raccolti nella sezione Religione : “I libri di teologia … sono quasi sempre opera di atei.”

“Le chiese di oggi sembrano garage, autogrill, stazioni di servizio”: qui è il critico d’arte che intuisce la degenerazione del contenuto attraverso quella della forma; così come in quest’altro: “I preti che cantano durante la messa canzoni pop sono l’immagine di una Chiesa che sta perdendo il senso del sacro.”

Nella sezione Giustizia è riportato, giustamente, un pensiero presente anche nella precedente raccolta e che personalmente ritengo esprima il profondo umanesimo dell’autore: “Un giudice non dovrebbe gioire nel condannare, anche quando ha la certezza che l’imputato è colpevole.”

Nella sezione Cultura, la più ampia dopo quella dedicata alla Politica, non certo perché subordinata a essa, ma perché la politica condiziona, purtroppo, tutto il resto, affiora la malinconia dell’intellettuale di fronte alla “perdita di senso” dell’arte contemporanea e all’impoverimento culturale generale: “La nostra è una cultura a perdere, non a costruire”; “L’arte contemporanea la si giudica dal prezzo, non dalla qualità.” Antonucci fa proprie la meritorie battaglie di uno dei pochi critici non subordinati al perverso intreccio delle tre “M”: Mercato-Musei-Massmedia, Jean Clair (e anche, a onor del vero, del nostro Sgarbi e, più di recente, di Gabriele Simongini, col suo Arte e Identità della Specie Umana, edito da Manfredi). Se viene in mente subito il titolo del famoso film di Fritz Lang, è un collegamento giustificato: quel mostruoso intreccio di interessi sta letteralmente “assassinando” (“M” stava per Mörder, assassino cioè), l’arte contemporanea, diventata sempre più, salvo rare eccezioni, un semplice, effimero, evento mediatico. D’altra parte è un effetto obbligato del fatto che: “La cultura di massa sfocia spesso e volentieri nell’ignoranza”.

Il volume si conclude con la sezione più dichiaratamente moralistica, Vizi e Virtù, ma anche qui Antonucci sa conciliare il tono solenne (alla Sarastro…) con il tocco leggero, o lo sberleffo: “Un uomo è  un uomo  quando è tale”, “La moda è tutto, il gusto nulla”, “Il cretino di oggi è più nocivo perché è un cretino collettivo.”

Quest’ultimo (per ora…) volume, “Vizi (molti) e virtù (poche)”, lanciato sulla piattaforma di Amazon – segno ulteriore della capacità dell’autore di tenersi al passo con i tempi – ne è il seguito ideale, sia dal punto di vista sistematico, sia per la scelta dei pensieri. Adotta infatti uno schema metodologico analogo, vale a dire che le “frasi celebri” (già celebri, o destinate a diventarlo…) sono inserite nelle stesse sezioni del volume precedente, con una sola, significativa variante: manca la categoria “Amore e  sesso”, probabilmente perché a più alto tasso di obsolescenza o deperibilità… La “griglia” tematica consente al lettore di focalizzare l’attenzione su quegli argomenti che più lo interessano, che sia la stupidità (insuperabile una celebre battuta-aforisma di W. Allen: ”il vantaggio dell’uomo intelligente sullo stupido è che il primo può fingere di essere stupido, il secondo non può fingere di essere intelligente”) o il teatro o la politica. Vi è anche qui un utilissimo indice dei nomi, con la consueta omissione di quello dell’autore stesso (per una forma di pudore, ma i suoi “detti” non sono da meno di quelli degli illustri pensatori citati).

Antonucci ha ritenuto inoltre, meritoriamente, di riportare alcuni dei più significativi aforismi delle raccolte precedenti, mettendo così in risalto la fondamentale continuità della sua riflessione.

La cifra dominante di tutte e tre le raccolte è quello che si potrebbe definire lo “stile Antonucci”, un mix di intelligenza vivacissima, cultura raffinata ed eleganza di tratto, stile che gli consente di prendere le distanze dalla valanga di presunti “aforismi” che negli ultimi venti anni hanno invaso gli scaffali delle librerie.

Lascerò al lettore piena libertà di scegliersi il sentiero che preferisce per addentrarsi nel folto bosco che la grande sapienza e la fervida immaginazione di Antonucci ha tirato su, ma vorrei tracciare una personale mappa, utilizzando alcuni pensieri della sezione “Cultura” che illuminano a mio parere quella che è la “poetica” dell’autore, il quale non teme di attirarsi addosso gli strali dell’“inquisizione mediatica”, che mira, da qualche tempo in qua, ad avvilire la reale cultura, che è sempre frutto di una ricerca individuale, senza preconcetti e, soprattutto, senza conformismi.

I più conformisti – e perciò dannosi – sono, a giudizio dell’autore, proprio gli “intellettuali”, verso i quali manifesta un giusto disprezzo (cita De Chirico: “ gli intellettuali sono destinati a non capire mai e poi mai nulla di nulla” ), e, soprattutto i ciechi e biechi cultori della cosiddetta “cancel culture”, che, pretendendo di rendere giustizia postuma a soprusi del passato, hanno avviato un processo di revisione-rimozione che rischia di distruggere le basi stesse della nostra civiltà. Sostiene perentoriamente Antonucci che”: “la cancel culture è il prodotto dell’ignoranza e del razzismo”.

La sezione si apre con un pensiero di Nicolas de Chamfort, apparentemente scontato, ma che introduce invece una sorta di imperativo categorico, quello di mantenere sempre, in ogni stadio dell’esistenza, uno sguardo limpido: “l’uomo comincia come un novizio a ogni età della vita”. Più avanti riporta una riflessione di Proust che ribadisce il concetto laddove afferma che per fare nuove scoperte non serve viaggiare verso nuove terre, ma “nell’avere nuovi occhi”.

Responsabilità degli scrittori, e in genere degli artisti, è mantenere saldo il legame col passato, evitando sbrigativi salti in avanti: “nulla invecchia più rapidamente dell’arte d’avanguardia”  (al colto Antonucci non può essere sfuggito un illuminante mini-saggio di Roland Barthes intitolato significativamente “All’avanguardia di che?”). Soprattutto quando dimentica che (Mahler dixit) “tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

E, come ricordano sia Goethe che Gide (Antonucci ha uno scandaglio sensibilissimo a cui non sfugge nulla che possa tornare utile al suo scopo), se è vero che “tutto è stato detto e pensato”, è anche vero che “poiché nessuno ascolta, occorre ripetere.”

E se il principe dei connoisseurs, Bernard Berenson denunciava già ai suoi tempi un fenomeno oggi divenuto prevalente: “schizza e gratta come ti viene, ci sarà sempre qualche critico che scoprirà un profondo significato, una strana bellezza, un’originalità rivelatrice”, Antonucci, lapidariamente chiosa: “per amare la bellezza ci vuole coraggio dove impera la bruttezza”, e, riportando un’ esortazione di Houllebeque (autore che nei suoi romanzi alterna vette di originalità a inaspettate cadute nell’ovvio): “coraggio oggi è salire su una torre e urlare che due più due fa quattro.”. Ancora: “l’arte contemporanea è giudicata dal suo prezzo non dalla sua qualità”, oppure, citando Kraus: “quando il sole della cultura è basso sull’orizzonte, anche i nani proiettano lunghe ombre”.

La, per nulla rassicurante, conclusione dell’aforista Antonucci è nel fulminante, heideggeriano, “Il nulla nulleggia”.

Devo, in chiusura, rilevare una lacuna nella raccolta. Dovuta, chiarisco subito,  non a distrazione o disattenzione dell’autore, ma al fatto che non ha avuto il tempo di inserire – essendo il volume già in stampa – l’aforisma più pregnante, e drammatico, che si potesse formulare in questo momento. E’ di Francesco, il papa, che riprende, consapevolmente o meno, una premonizione di Gunther Anders, il filosofo autore de “L’uomo è antiquato” e del “Diario di Hiroshima”, secondo il quale l’uomo è in grado, oggi, con le armi che ha costruito, la cui potenza il suo sistema razionale ed etico, ancora primitivo, non riesce a dominare, di distruggere, con l’uomo, la storia stessa).  Antonucci, per dargli il dovuto rilievo avrebbe dovuto pensare a una sezione apposita intitolata Apocalisse. Mi pare che sia la conclusione più adatta di questo percorso fra i “vizi (molti) e le virtù (poche)”, dell’essere più nefasto che sia apparso sulla terra, non il Tyrannosaurus Rex…, ma l’uomo ovviamente: “Bisogna cancellare la guerra dalla storia, prima che la guerra cancelli, con l’uomo, la storia stessa.”

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