Chiara Poggi, la storia del delitto "senza movente" di Garlasco - Leccenews24

2022-09-03 03:15:21 By : Mr. Eason Hao

Era il 13 agosto 2007, una domenica, quando Chiara Poggi fu trovata senza vita nella villetta di famiglia, a Garlasco. Uccisa, per la giustizia, dal fidanzato Alberto Stasi

13 agosto 2007. L’orologio aveva da poco segnato le 13.50, quando con una chiamata al 118 comincia il giallo di Garlasco, la Las Vegas della Lomellina bollente e semideserta in quella assolata domenica nel cuore dell’estate. Il contenuto della telefonata è agghiacciante: «Credo che abbiano ucciso una persona, ma non ne sono sicuro… forse è viva. C’è sangue dappertutto e lei è sdraiata per terra». Quella “persona” era Chiara Poggi, non un volto sconosciuto, ma la fidanzata del ragazzo che aveva composto il numero di emergenza e, con un tono “freddo e innaturalmente discattato”, aveva chiesto aiuto.

Non serviva più. La 26enne era morta, uccisa a 26 anni nella villetta di famiglia al civico 29 di via Giovanni Pascoli, forse con un martello. L’arma, mai trovata, è solo uno dei tanti “misteri” del delitto di Garlasco. Certo, il caso non era finito nella lunga lista dei cold-case, chiuso in un cassetto tra i faldoni degli omicidi irrisolti. L’assassino aveva un volto e un nome, Alberto Stasi, il “biondino dagli occhi di ghiaccio”, ma sono tante le ombre mai chiarite.

Chiara – che aveva aperto la porta al suo assassino – non era sdraiata a terra, come raccontato nella chiamata, ma riversa sulle scale che conducono alla cantina, adagiata sul nono gradino in una pozza di sangue. E Stasi davanti al corpo che fa? Non aiuta la sua ragazza, che forse poteva essere ancora viva, ma bussa alla porta dei Carabinieri, “immacolato”. Le scarpe erano pulite, come i vestiti. Non serve essere entrati in casa, basta aver dato anche solo un’occhiata a una fotografia del salotto e delle scale della taverna per convincersi che è materialmente impossibile non sporcarsi. Sembrava che Alberto si fosse cambiato prima di presentarsi davanti agli uomini in divisa. Un comportamento strano che condanna Stasi a finire nella lista dei sospettati. Unico sospettato.

Se fosse vero, come ha raccontato, che si è presentato nella villetta che si affaccia su via Pascoli perché la ragazza non rispondeva al telefono e che l’aveva cercata nell’abitazione vuota (i genitori e il fratello minore erano partiti per le vacanze) per di più, come ha detto, senza sapere dove metteva i piedi, doveva per forza essersi sporcato sulla “scena del crimine”. Sulle scarpe Lacoste consegnate agli inquirenti “solo” 19 ore dopo il ritrovamento del cadavere non c’era nessuna traccia così come sui tappetini dell’auto guidata dopo essere scappato da casa Poggi per andare a sporgere denuncia. Il ragionamento degli inquirenti era semplice: poteva un uomo, sconvolto dopo aver visto la fidanzata morta, scappare per chiedere aiuto facendo attenzione ad evitare il sangue?

Un dettaglio non di poco conto vista la ‘battaglia’ di perizie in aula. In un esperimento (uno dei tanti durante il processo) la possibilità che Alberto non calpestasse il sangue di Chiara era pari allo 0,00038 %. Considerando come punto di arrivo il secondo gradino, la percentuale si riduceva allo 0,00002 %. Quasi impossibile, insomma, che Alberto abbia camminato sul teatro della tragedia senza ‘toccare’ le macchie, soprattutto quella vicino alla porta a soffietto che porta alla cantina. Quasi impossibile che il ragazzo sia uscito con le suole candide da quella casa. Era poi un caso alquanto raro che assassino e fidanzato di Chiara indossassero un 42.

C’erano poi le impronte – dell’anulare destro di Alberto – lasciante sul dispenser del sapone nel bagno a piano terra usato dall’aggressore per lavarsi le mani dopo il delitto. Sul dosatore è stato trovato il profilo genetico di Chiara, ma non degli altri suoi familiari. La conclusione fu che Stasi, dopo aver ripulito il lavandino, nel tentativo di risistemare il dispenser abbia lasciato quelle due tracce. «Può essere avvenuto in qualsiasi momento» dirà la difesa. Possibile che, qualora anche il killer abbia sciacquato il dispenser, la traccia di Stasi sia sfuggita al lavaggio?

Ultimo, ma non meno importante, è il tassello della bicicletta dello studente. Due testimoni – in un orario compatibile con la morte della ragazza – avevano visto una bicicletta nera da donna appoggiata sul muro della villetta, non lontano dal cancello. Sui pedali di una due ruote bordeaux, sequestrata in casa Stasi, verrà trovata una consistente quantità di Dna appartenente a Chiara. Una “pistola fumante” per gli inquirenti. Alberto, però, quando si era recato a casa Poggi e aveva scoperto il corpo, era in auto. E la bici notata era nera, da donna.

Che cosa era accaduto? Probabilmente i pedali delle due biciclette della famiglia Stasi erano stati scambiati quando la stampa scrisse che si cercava una bici nera (incredibilmente sequestrata sette anni dopo per una svista dell’ex maresciallo finito a processo per falsa testimonianza). C’è anche poi il fatto che Stasi non ha mai menzionato tra le biciclette in possesso della sua famiglia quella “nera da donna” notata dalle due testimoni.

Non un indizio decisivo fu il capello castano chiaro trovato nella mano della ragazza. Era privo di bulbo, quindi, di Dna. Come inutili, purtroppo, saranno le impronte di una mano lasciate sul pigiama rosa di Chiara all’altezza della spalla sinistra. La firma del killer che ha sollevato il corpo della ragazza e lo ha gettato dalle scale. Saranno cancellate per sbaglio, una maldestra manovra degli investigatori che girarono il corpo della ragazza sporcando completamente la maglietta di sangue. Un errore madornale.

Non poteva essere una rapina finita in tragedia. La ragazza aveva aperto la porta al suo assassino e sul corpo, il medico legale, non aveva trovato segni di difesa, probabilmente perché si fidava della persona che aveva di fronte. Di più indossava un pigiama rosa e, come confermato dalla famiglia e da chi la conosceva, non si sarebbe mai presentata in déshabillé davanti ad uno sconosciuto. Non solo. Non erano stati trovati segni di effrazione sul cancello esterno, sulla porta di ingresso o sulle finestre, da casa non mancava nulla e chi si era intrufolato nell’abitazione sembrava conoscerla.

E allora chi ha ucciso Chiara Poggi? Alberto Stasi per la giustizia. Non c’erano più testimoni da sentire o prove da cercare, ma nel delitto di Garlasco sono tante le cose che non tornano. Manca il movente, ad esempio.

In quei mesi Alberto stava lavorando alla sua tesi di laurea che dedicherà alla sua fidanzata: “A Chiara, che qualcuno ha voluto togliermi troppo presto”. E lo ha fatto anche il 13 agosto del 2007, giorno in cui Chiara è stata uccisa. Su quel pc, consegnato spontaneamente ai Carabinieri, spunta una cartella: “Militare”. Al suo interno erano nascoste oltre diecimila foto di minori. È possibile che Chiara abbia visto quelle immagini e che abbia chiesto spiegazioni al fidanzato? No, secondo la Cassazione che ha assolto Stasi «perché il fatto non sussiste». Nella sua arringa, l’avvocato dello studente aveva sostenuto che quelle immagini “non possono essere in alcun modo il movente” per spiegare l’uccisione di Chiara.

Nessun movente, nessuna arma del delitto, poche prove, poche impronte e l’alibi fornito (“dalle 9.36 alle 12.20 ero al computer a lavorare sulla tesi di laurea”) sta in piedi. Gli stessi motivi per cui l’ex fidanzato di Chiara viene assolto due volte: in primo grado nel 2009, in appello nel 2011. Il quadro cambia ad aprile 2013: la Suprema Corte annulla tutto e rimanda Stasi alla sbarra. Perché? Per gli ermellini della Cassazione l’inchiesta è piena di buchi: troppi gli indizi trascurati nei primi processi. Alla fine è stato condannato a 16 anni. L’accusa aveva chiesto 30 anni, ma i giudici non hanno riconosciuto al ragazzo l’aggravante della crudeltà. Ecco perché la pena è inferiore.

Stasi, dal canto suo, ha urlato e continua ad urlare la sua innocenza.

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