30 protagonisti dell'arte contemporanea secondo Elle Decor

2022-08-08 09:58:41 By : Ms. Kitty Ji

Torna l'appuntamento con i nostri Top 30: i migliori creativi della scena internazionale, testimonial speciali del numero di marzo

Secondo appuntamento con i nostri Top 30: i migliori creativi sulla scena internazionale selezionati alla maniera di Elle Decor. Nel vasto panorama dell’arte contemporanea — fatto di linguaggi, tendenze, poetiche e media diversissimi fra loro — abbiamo concentrato l’attenzione sui nomi il cui lavoro è strettamente correlato ai temi del design, dell’architettura e dello spazio. Gli artisti che scoprirete sono giovani promesse e grandi maestri, diversi fra loro ma accomunati da un analogo interesse. Ci sono i tedeschi Candida Höfer e Thomas Ruff, massimi rappresentanti della fotografia oggettiva, che raffigurano interni o edifici con occhio apparentemente distaccato. Joep van Lieshout, Martin Boyce, Leonor Antunes, Tatiana Trouvé, Jorge Pardo e Tobias Rehberger trasformano pezzi di design in opere d’arte alla maniera dei ready made di Duchamp, ma in una versione super attuale. Tomás Saraceno, Franz Erhard Walther, Carsten Höller, Rirkrit Tiravanija e Monica Bonvicini giocano in bilico fra l’installazione e la performance, realizzando lavori in cui includono spazio, azione e pubblico. Doh Ho Suh, Flavio Favelli, Rachel Whiteread e Hans Op de Beeck citano luoghi o elementi domestici trasformandoli in qualcosa di nuovo, emozionante. Che siamo sicuri coinvolgerà anche i nostri lettori.

Il pane di questo californiano classe 1968 sono sculture e video che diventano veri e propri interventi architettonici. Ci sono rimaste impresse le sue video-proiezioni sulle pareti esterne del MoMA, del 2007, così come il Sonic Pavilion sulle colline brasiliane, vero e proprio progetto costruttivo realizzato nel 2009. Sull’Isola Tiberina, a Roma, nello stesso anno, ha creato un’installazione che era decisamente un'architettura. Suoi anche un treno inteso come una scultura viaggiante tra San Francisco e New York e la piattaforma al largo di Atene con un live theatre. “Mirage” è invece una casa con pareti e tetto fatti di specchi creata sulle Alpi Svizzere e nelle pianure dell’America dell’ovest; “Mirror” è la trasformazione in caleidoscopio delle pareti del Seattle Art Museum. Il suo lavoro è stato presentato in istituzioni importanti in tutto il mondo, come il Whitney Museum of American Art, The Museum of Modern Art, Vienna Secession, Serpentine Gallery, Centre Georges Pompidou. Ha partecipato alla Biennale di Whitney (1997 e 2000), ha vinto l’International Prize alla Biennale di Venezia nel 1999 per l’installazione “Electric earth”; ma è stato protagonista di molte altre manifestazioni. Tra le ultime mostre personali ricordiamo quella da Victoria Miro a Londra e alla Faurschou Foundation a Beijing.

Nata a Lisbona, vive a Berlino. Nel suo lavoro cita i maestri modernisti dell’arte, del design, dell’architettura, usando materiali tradizionali: corda, legno, ottone, pelle, gomma e sughero. “Il mio lavoro si adatta e reagisce all'ambiente per il quale è stato inizialmente prodotto o in cui si trova. In tal senso è come un'opera che si inserisce all'interno di un'opera, e che nella maggior parte dei casi viene rivelata da un processo di indagine sul design modernista e sulle sue storicità... soprattutto perché si adatta a un luogo specifico. Sono molto interessata, ma non esclusivamente, al lavoro di alcune designer e artiste donne che sono state tendenzialmente allontanate dalle storie tradizionali o canoniche. La mia indagine su alcune figure spesso emarginate è l’origine del materiale con il quale lavoro, ma anche questo processo è più intricato, come di infusione e intarsio, un loop tra il perduto e il trovato, tra ciò che è dimenticato e ciò che è ricordato”. Il suo lavoro è stato esposto in numerose istituzioni e manifestazioni, come la Biennale di Venezia (2017 e 2019), di Berlino (2014), di Singapore (2011), all’Haus Konstruktiv di Zurigo dopo la vincita del Zurich Art Prize 2019, all’Hangar Bicocca di Milano (2018), alla Whitechapel Gallery di Londra (2017).

“Considero le opere come altri corpi con i quali i nostri si confrontano, corpi significanti. E l’architettura è un altro corpo con il quale avere a che fare”. Così l’artista pugliese definisce il suo rapporto con l’architettura e il design. Nato a Mesagne in provincia di Brindisi nel 1978, ora vive e lavora a Cassano delle Murge (Bari), dove porta avanti una pratica che indaga il rapporto tra storia collettiva e personale, realizzando performance, installazioni e sculture in cui l’oggetto (derivante dal quotidiano o dalla tradizione scultorea) si adatta al dato storico – punto di partenza della sua creazione – per tradurlo in materiali filologicamente aderenti ad esso. Tra le mostre recenti si ricordano la personale: Tre sequenze per voce sola alla galleria Raffaella Cortese di Milano e Due ritratti con persona alla Sprovieri Gallery di Londra. “Il design influenza il mio rapporto con gli oggetti e il loro utilizzo, personalmente prediligo un design dalle linee semplici, minimali, pensato non solo per l’occhio ma anche per il tatto. Mi piace sentire le forme di un oggetto in contrapposizione al corpo che in qualche modo deve adattarsi ad esso e non viceversa. D’altronde queste sono caratteristiche anche del mio lavoro dove, naturalmente, c’è un design che ha un suo significato preciso”.

“Penso che il design sia importante per ogni artista, anche se a livelli diversi. Come invece le cose appaiono, che storia raccontano, da dove vengono e perché... questi sono argomenti importanti per tutti”. Nata a Venezia nel 1965, vive e lavora a Berlino. Nelle sue opere si incontra e si scontra con la tradizionale visione di eredità modernista per la quale l’atto del costruire è una prerogativa essenzialmente maschile. Nel suo linguaggio duro ed esplicito sono frequenti i richiami all’immaginario BDSM, con cinture, catene, gabbie, fruste appese al soffitto, cavi elettrici, specchi, fotografie, collage con i quali l’artista costruisce vere e proprie architetture, aperte o chiuse, visitabili o meno, con materiali sempre diversi. Ci ha detto: “Le mie prime installazioni-video e le sculture degli anni '90 hanno a che fare con l’architettura. A un certo punto ho smesso di leggere d’arte e ho iniziato a leggere solo libri e riviste d’architettura. I due sistemi per certi versi si rispecchiano, sebbene attraverso una sorta di specchio distorto. E aggiunge: “Uso elementi architettonici classici, come e soprattutto i muri, ma anche le scale. Richiedono un certo grado di concentrazione mentre si usano, invitano e provocano una performance e diventano la traccia di un certo movimento. Penso a opere come Scale of Things (to Come) o Stairway to Hell, l'installazione 15 Steps to the Virgin alla Biennale di Venezia a cura di Bice Curiger. Sto anche lavorando molto con le luci, quindi il design e la tecnologia mi interessano molto, come il fatto che la luce possa creare spazio e così facendo un senso di identità”. Bonvicini ha appena ricevuto l’Oskar Kokoschka Prize. In Italia l’ultima sua mostra è stata, nel 2019, alle OGR di Torino.

Classe 1983, vive tra Svizzera e Germania. Parlando del design, e della relazione di questo con l'arte, dice: “per me è importante, poiché spesso presenta ciò che esiste già in natura. La visione microscopica di una foglia o di un fiocco di neve, la superficie di una pelliccia, le perle d'acqua sulla pelle, l'intricata smerlatura delle corolle di fiori, rivelano tutti pattern geniali che sono stati adattati ed estrapolati per secoli nell'arte e nel design”. Pitture, sculture, installazioni ambientali partono spesso proprio dalla natura e la incorporano, analizzando forme, ripetizioni biomorfiche, regolarità geometriche. I suoi interventi murali rimandano a un certo minimalismo e spaziano dall’essere monocromatici fino all'avere una progressione di colori, ricordando certe opere di Sol LeWitt, Bridget Riley, John Armleder. Dell’architettura racconta: “Il mio lavoro reagisce al volume, all'allineamento e all'equilibrio di qualsiasi interno in cui lo mostro. L'architettura è spesso la prima cosa che considero quando sviluppo un'installazione, infatti per prima cosa disegno spazio usando programmi come SketchUp. Facendo così ho un'idea molto chiara dell'ambiente. Ne imparo i limiti e le peculiarità: la simmetria, ad esempio, diventa una considerazione essenziale mentre eventuali ‘difetti’ sono aspetti in cui mi piace adattarmi in modo creativo”. Ci nomina anche alcuni architetti che l’hanno influenzata: “Pur non essendo riferimenti diretti, ammiro la semplicità dell'architettura di Tadao Ando e Peter Zumthor... Invece l’eccentricità di molta architettura postmoderna non mi ha mai veramente interessato”. Tra le sue ultime mostre, nel 2019, le due personali al Castello di Rivoli e al Copenhagen Contemporary.

Danese trapiantato a Berlino, nato nel 1967, le sue opere sono veri e propri ambienti immersivi in cui lo spettatore viene catturato in giochi di colori, luci, riflessi e movimento oppure nella messa in scena di fenomeni naturali, portandoci a chiedere cosa influenza la nostra percezione e quanta parte ha su di essa la nostra cultura. Obiettivo finale: avere più consapevolezza sul modo in cui interagiamo con il mondo. Ma c’è anche lo studio della geometria, dei modelli di movimento, della costituzione dell’acqua, della temperatura dell’aria e l’interesse per il cambiamento climatico, le fonti di energia, la migrazione e l’architettura. Tra i suoi lavori più noti, The Glacier Melt Series 1999/2019, opera in cui torna a fotografare 30 ghiacciai dopo 20 anni, documentando il loro scioglimento. Eliasson vive e lavora tra Copenaghen e Berlino, dove nel 1995 ha fondato il suo studio, che ora annovera un centinaio di collaboratori, tra ricercatori, storici dell’arte, architetti, artigiani, ecc. L’artista ha rappresentato la Danimarca alla Biennale di Venezia del 2003 e i suoi lavori sono stati esposti presso la Turbine Hall della Tate Modern di Londra (2003), il MoMA PS1 di New York, il Museum of Modern Art di San Francisco (2007), la Fondation Louis Vuitton (2014) e molte altre. Tra le ultime mostre ricordiamo quelle alla Kunsthaus di Zurigo e alla Tate Modern di Londra.

Piscine posizionate in verticale come monumenti pubblici, orinatoi uniti tra di loro attraverso i tubi di scarico intrecciati, il concept store di Prada in Texas. Questi sono solo alcuni dei lavori del duo Elmgreen & Dragset, composto da Michael Elmgreen e Ingar Dragset nati, rispettivamente, a Copenhagen nel 1961 e Trondheim nel 1969, che adesso vivono e lavorano a Berlino. “Il design degli oggetti che ci circondano ci dice molto sulla nostra cultura – e non solo in senso estetico e formale. I vari progetti possono anche essere visti come i risultati fisici diretti dei nostri sistemi di valori, delle nostre strutture sociali e dei nostri desideri. A volte le nostre sculture possono apparire come se fossero già pronte all'uso, ma in realtà sono fatte a mano da zero, con lievi alterazioni nella forma e nella funzione”. A proposito del loro rapporto con l’architettura dicono: “I concept delle nostre mostre sono spesso sviluppati attorno agli edifici che le ospitano. Ci piace creare alterazioni che modificano il modo in cui le persone vivono e percepiscono gli spazi che li circondano. Mostre come This Is How We Bite Our Tongue alla Whitechapel Gallery di Londra nel 2018, dove abbiamo trasformato la galleria principale in una piscina pubblica abbandonata, o The Collectors alla Biennale di Venezia nel 2009 , dove abbiamo trasformato il Padiglione Danese e dei Paesi Nordici in due distinti ambienti domestici, erano strettamente correlate alle architetture dei luoghi”. E continuano: "È strano che esista una sorta di gerarchia tra interior design e architettura, in cui l'architettura tende a essere considerata, tra i due, la pratica più seria. Tuttavia, per la maggior parte di noi la realtà è che non possiamo progettare i nostri edifici, ma possiamo scegliere come esprimerci nel modo in cui organizziamo e decoriamo le nostre case". Recentemente si è conclusa l’importante mostra personale di Elmgreen & Dragset al Nasher Sculpture Center. In Italia sono rappresentati dalla galleria Massimo De Carlo.

Nasce nel 1939 a Fulda, in Germania, dove vive e lavora. La sua pratica ruota intorno allo studio della dimensione spaziale, sensoriale e temporale delle forme, spostando l’attenzione dal prodotto al processo per ottenerlo. Le sue opere, come l’installazione della foto sotto, sono oggetti di tessuto, strutture sospese ed elementi simili a mensole o scaffali. Franz Erhard Walther è interessato ad uscire "fuori dal contratto apparentemente inviolabile secondo cui un'opera è un oggetto prodotto da un artista", così come "ad attaccare lo status storicamente definito dell'osservatore, secondo il quale la percezione inizia con l'esperienza". Il suo lavoro parte da un'azione, da un atto, arrivando a creare lavori di dimensioni considerevoli, rivolgendo l’attenzione all’architettura, ponendosi in relazione con il museo o la galleria in cui viene installato. Tra le ultime mostre ricordiamo le personali al Museo Jumex, Mexico (2018) e al Museo Nacional Centro de Arte, Reina Sofia a Madrid nel 2017. E' ora aperta, dal 5 marzo, una sua personale alla Haus der Kunst di Monaco di Baviera. Nel 2017 ha vinto alla Biennale di Venezia il Leone d’Oro come miglior artista.

Fiorentino, classe 1967, vive e lavora a Savigno (Bo). Rielabora e reinterpreta oggetti ed elementi del passato, a cui poi dona forma e significato diversi. Ci tiene a specificare: “Il mio non è ‘riuso’, non voglio dare nuova vita al vintage. Gli oggetti e le forme rappresentano un gusto, un tempo, un’idea e un potere specifici di un’epoca. Sono nato in una famiglia borghese, in una casa dove si respirava la transizione fra Ottocento e Novecento, tra stanze piene, sale colme di antiquariato, arte, utensili, arredi. C'era il culto del possesso e delle belle cose: la storia dell’Occidente e della sua fine. Ho vissuto per anni come in una tomba egizia, ma da vivo. In tutte questo ci dovevo mettere le mani, ma non perché interessante e bello...”. La sua arte è allora una riflessione “sui conflitti. Della società e della vita”. E aggiunge: “Se c’è una cosa da cui non recedo è intendere l’arte come un qualcosa senza un ruolo preciso, né una funzione chiara. Insomma non serve a niente di concreto se non a produrre un cortocircuito". A proposito dell’architettura ci ha confessato: “Per me vuole dire casa, le case dove ho vissuto. Quando penso a me mi immagino in una stanza di queste case. Sono di Firenze, la mia parrocchia era San Lorenzo, le tombe medicee, roba bella pesante. Chi è nato in quella città non può avere un rapporto sereno con l’architettura. Nel 2000 a Bologna presi un ex dormitorio delle Ferrovie dello Stato e rinnovai le sue stanze, come un grande ambiente, mentre nel 2003 chiamai La mia casa è la mia mente una mostra a Torino, tanto per essere chiari". Tra le sue ultime mostre: Il bello inverso a Ca’ Rezzonico (Venezia) e l’installazione ambientale Hic et nunc ad Arte Fiera, Bologna.

Milanese classe 1980, dice di sé: “La mia produzione si snoda attorno alla ricerca dell’Io”. Prende spunto dalla narrativa fantastica, dalla mitologia, dal cinema e dallo sport per creare opere che spaziano dalla pittura al video, dall’installazione alla scultura, dalla fotografia al collage digitale. Afferma: “Il mio rapporto con il design e l’architettura è costante e stimolante. Spesso elementi di design costellano le mie opere diventandone parte. Oggi nessun artista può fare a meno del design. Penso al tablet che sostituisce la tela o ti permette di elaborare immagini, a un lettore cd che diventa una conchiglia, a un anello porta bicchiere da bagno che può essere il supporto per una scultura””. Cobbettp è rappresentato dalla Galleria Fonti di Napoli, la sua ultima mostra, appena aperta, è da Dimora Artica a Milano.

“Del design mi intrigano le ricerche meno note, i percorsi interrotti di progettisti che ancora non conosco, la sorpresa di pezzi unici o comunque poco diffusi. Questo definisce il mio modo di realizzare ceramiche, vetri e pitture”, spiega Paolo Gonzato (nato nel 1975 a Busto Arsizio, vive e lavora a Milano). Le sue opere hanno “un rigido impianto geometrico, una struttura in cui hanno posto materiali, colori, citazioni dalla storia dell’arte. Non prescindo mai da ciò che viene definito ‘classico’, il modo in cui certe tematiche sono state affrontate in passato. Di recente mi interessa l’impianto creativo di Piranesi e l’uso che fa dell’archeologia, dell’antiquariato e della ricerca, ricomponendole a suo piacimento per produrre affascinanti falsi storici”. Ci racconta che altre sue fonti d’interesse sono “il 900 di area Milanese, la forte mescolanza e iterazione tra arte e mestieri, tra autori e artigiani. Mi piace il Brutalismo e il Postmoderno. Gli anni 70-80 e 90, Andrea Branzi, le produzioni di Gavina, Alessandro Mendini, Guerriero, Pesce, Botta, Dalisi e la ceramica di Antonia Campi, Carlo Zauli, Melotti, i vetri di Toni Zuccheri e il mondo alieno di Gino De Dominicis”.

Che siano edifici diafani o elementi di uso comune realizzati in tessuto trasparente (poliestere), come veli d’organza colorata che lasciano vedere attraverso; oppure vere e proprie case sospese in bilico sulla grondaia di un palazzo, o piantate nel bel mezzo di un ponte a Londra o incastrate ‘a sorpresa’ tra due palazzi, i suoi lavori hanno chiari riferimenti al mondo del design e dell’architettura. L’artista è nato nel 1962 in Sud Corea, e ora vive e lavora a Londra. Nel 2001 ha rappresentato proprio paese alla Biennale d’Arte di Venezia, ma ha partecipato anche alle biennali di Singapore (2016), Gwangju (2012), Liverpool (2010), alla Biennale d’Architettura di Venezia (2010). Il suo lavoro è stato anche presentato in musei e fondazioni di tutto il mondo. Tra le ultime mostre personali, ricordiamo quella al Victoria&Albert Museum di Londra (2019) e al Museum Voorlinden nei Paesi Bassi (2019).

Tedesca, classe 1944, la sua sfida, iniziata negli anni '70, è fotografare in assenza di esseri umani interni e dettagli architettonici come porte, scale, archi. Interessata ai luoghi di aggregazione (musei, chiese, biblioteche, teatri) li ritrae attraverso immagini stampate in grandi dimensioni, con un forte impatto sullo spettatore. La foto stessa diventa luogo da abitare.”Sono interessata alle diverse personalità degli spazi architettonici”, spiega e aggiunge di essere interessata “alle differenti personalità degli spazi creati dall’architettura”. Per questo, ammette, anche il design “È stato sempre importante per l’ambiente in cui ha vissuto, influenzando così la sua vita e il suo lavoro”. Ultima mostra personale: Galleria Sean Kelly di New York (2019). Nel 2003 ha rappresentato la Germania alla Biennale di Venezia.

È nato a Bruxelles nel 1961, adesso vive e lavora tra Stoccolma e Briwa. Le sue sono installazioni che dialogano con l’architettura, modificano i percorsi spaziali, creano vere situazioni abitabili allo scopo di coinvolgere in modo attivo e dinamico lo spettatore. Sfere luminose, letti mobili su cui si può dormire, giostre che girano a velocità bassissima, dispositivi per fare volare, funghi enormi in poliestere ma anche un vero e proprio bar, progettato per fare convivere cultura congolese e occidentale, e una camera d’albergo mobile (in un museo). Suoi lavori sono stati esposti in luoghi chiave come Fondazione Prada e Hangar Bicocca a Milano, MoMA a New York, Biennale di Venezia. In Italia è rappresentato dalle gallerie Massimo De Carlo e Continua.

Nato in Svizzera nel 1975, vive e lavora a Milano. La sua è “una pratica eterogenea che mescola discorsi, opere architettoniche, biografie, materia e scultura”, con una spiccata predilezione per i tessuti, a volte ‘incipriati’ con materiali vari: in una mostra presso Building Gallery a Milano espone frammenti di manifesti d’architettura, vasi-scultura creati con sabbia della battigia, grandi superfici di velluto con polvere di clessidra, un chiodo d’oro che punge la superficie del vetro. Un’altra mostra al ristorante jap Zazà Ramen a Milano mette in relazione food e design, con frasi di Lucio Fontana impresse su ciotole e piatti. A proposito della sua relazione con il design, racconta: “è sempre stato, prima di tutto, qualcosa di cui fare esperienza con il corpo e con i sensi e, in un secondo momento, un esercizio intellettuale interpretato attraverso un livello storico-simbolico". Poi aggiunge: “La misura di tutte le cose è il nostro stare insieme: spesso i miei riferimenti nascono da una sorta di biografia di un incontro. Se penso a un riferimento specifico per l’arte in dialogo con l’architettura non posso non citare lo studio Kuehn-Malvezzi. L’idea di un design curatoriale che crea nuove relazioni è puntuale e necessaria. Poi ovviamente ci sarebbero mille altri nomi che hanno a che vedere con un certo rigore concettuale o una precisa poetica, ad esempio: Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa. Il loro lavoro parla di un ‘non so che’ e di un ‘quasi nulla’ che crea una qualità abitativa e ci fa respirare. Finisco suggerendo l’ingegnera strutturale Roma Agrawal con le sue splendide storie nascoste dietro le architetture”.

Nato a Turnhout nel 1969, basato a Bruxelles, dice di sé: “Come artista con un linguaggio pittorico e figurativo distintivo, il design è una parte essenziale del mio vocabolario visivo. Interpreto sempre le estetiche e le forme di vari periodi, nonché di diverse origini culturali, attraverso una mia miscela personale: un insieme anacronistico che parla di atemporalità e attualità, senza paura di mescolare la cosiddetta alta cultura con la sottocultura, il buon gusto con il cosiddetto cattivo gusto. Sia l'equilibrio che lo squilibrio sono preziosi quando si cerca di parlare della vita e del suo flusso tragicomico, della sua alternanza di fallimento e successo”. Definisce la sua una “pratica artistica multidisciplinare”: negli anni ha realizzato sculture, scenografie, installazioni, dipinti, fotografie, video e architetture vere e proprie. Spiega: “Quando si tenta di mettere in scena un ambiente che evoca uno stato d’animo, un’atmosfera, un silenzio carico, allora l’architettura è essenziale”. E aggiunge: “Ho la libertà di essere sia artisticamente corretto che esteticamente scorretto quando si tratta dell'uso dell'architettura, dei componenti architettonici e dell'interior design. A volte il mio ambiente architettonico è minimale e puro, a volte barocco e complicato". Detto questo, Hans Op De Beck sottolinea: "gli ambienti messi in scena o evocati sono sempre completamente fittizi, nel senso che non citano né partono dall'opera di uno specifico architetto o designer". Ama ricoprire le sue creazioni con uno strato di intonaco grigio con effetto “pietrificante”. Ultimamente ha partecipato a varie mostre collettive, per esempio al Museum Helmond (a Helmond, Olanda) e al Dom Museum Wien.

Duo artistico composto da Valentina e Claudio, nati 35 anni fa a Milano, dove vivono. In perenne evoluzione e felice equilibrio perché, spiegano, “per noi ogni progetto è occasione di condivisione”. Nell’ambito della loro ricerca multidisciplinare individuano e avvicinano "strutture simili appartenenti ad ambiti tal volta distanti”, cosi come architettano "ecosistemi in cui sia mantenuta viva una certa complessità”. Oggetti di uso domestico e appartenenti ad una dimensione intima vengono rielaborati con materiali insoliti, creando opere di forte impatto poetico: disegni, installazioni e lavori a parete. Ci hanno confidato: “Ci sono architetti che apprezziamo per motivi diversi: Franco Albini per esempio per gli allestimenti in cui il nuovo dialoga con l'antico. Anche nelle opere di Carlo Scarpa si coglie questa integrazione. Di Gio Ponti ci ha sempre colpito l'architettura di interni, la geometria e l'eleganza. In Jean Prouvè è forte l'idea della macchina. Stimiamo Enzo Mari, Achille Castiglioni e i coniugi Eames per l'approccio sperimentale, concettuale e artigianale nel disegno industriale. E Bruno Munari per l'attitudine al gioco, il suo non prendersi troppo sul serio, la leggerezza e genialità dell’intuizione. Tra i contemporanei, ci interessano Kazuyo Sejima e Junya Ishigami per le strutture bianche ipersottili: l'architettura che diventa una bolla traspirante e permeabile al passare della luce in maniera quasi diafana”. Tra le ultime mostre, la personale alla Galleria Continua di Les Moulins (Parigi) nel 2018 e quella nella ex chiesa di Ognissanti a Fermo nel 2019.

Nato a Cuba nel 1963, vive e lavora in Messico. Il suo lavoro è una riflessione sulle intersezioni: tra tecnologia e artigianato, architettura e scultura, intere abitazioni e opere. Tra i suoi progetti una casa a Los Angeles con 110 lampade di vetro soffiato biomorfo (‘4166 Sea View Lane’, nella foto sotto) o edifici costruiti nel 2012 sulle rovine di un paese dello Yucatán del XVII secolo (‘Tecoh’). La sua casa attuale? Un edificio trasformato in una scultura abitabile, con lampade, mobili, specchi, superfici piastrellate che sono vere e proprie opere d’arte in cui i colori esuberanti, le forme insolite, la luminosità dominano lo spazio. Ha creato anche opere permanenti come: Hotel L'Arlatan ad Arles in Francia (2018); l’opera pubblica Streetcar Stop for Portland a Portland (2014); ha disegnato lampade pendenti per l’Alexander Hotel a Indianapolis, (2013) e moltissimi altri progetti, spesso site specific e pensati per l’occasione. Il suo lavoro è stato esposto in museo e manifestazioni d’arte come: Los Angeles County Museum of Art (2008); Biennale di Venezia (2017); Cruz Collection, Miami (2015); MoMA Museum of Modern Art, New York (2012); Tate Modern, Londra (2006) e molti altri.

“Col passare del tempo mi interesso sempre di più alle strategie del design, all’idea di funzione e di struttura. Sono meno interessato all'idea delle apparenze”. Così l’artista tedesco, nato a Esslingen nel 1966, ci spiega il suo rapporto con il mondo del progetto. E aggiunge, relativamente all’influenza dell’architettura nella sua ricerca: “Sono interessato al modo in cui funziona l'architettura: dall'approccio collaborativo a come le cose sono fatte”. Ci dice di avere come riferimenti sia architetti che designer e cita Superstudio per l'approccio interessante e per aver affrontato sia nel campo dell'architettura che in quello dell'interior design quelle che lui definisce le "idee più problematiche". Crea sculture, ambienti e installazioni recuperando processi industriali e innovazioni tecnologiche, mettendo in relazione funzionalità ed estetica. Tra le caratteristiche dei suoi lavori: colori accesi, geometrie che creano disorientamento, forme insolite (come nella foto a destra). Le sue opere sono state esposte in istituzioni e manifestazioni importanti come la Biennale di Venezia, la Fondazione Prada a Milano, il Palais de Tokyo, Parigi .

Nato a Brunnen, in Svizzera, nel 1964, vive e lavora a New York. Tra i suoi lavori più celebri, le torri costituite da pietre sovrapposte, dipinte con colori fluorescenti. Spesso le sue mostre prevedono la creazione di ambienti con luci abbaglianti e colori accesi, con creazioni di nuove finestre in musei e gallerie, o modifiche ai colori dei vetri. Ama dividere gli spazi creando muri di mattoni colorati, costruire complesse architetture con elementi metallici, ‘inventare’ portoni che danno sul nulla. Ha realizzato anche sculture in bronzo, alluminio e gomma, tele dipinte, sculture antropomorfe fatte con massi di pietre, poesie incorniciate, installazioni sonore. Nel 2007 ha rappresentato la Svizzera alla Biennale di Venezia. Tra le mostre più recenti, le personali alla Kunsthalle di Helsinki e alla Galerie Kamel Mennour di Parigi.

Fotografo tedesco, parte dal presupposto che l’obbiettivo “può catturare solo la superficie delle cose” e volge il suo interesse alla costruzione dell’immagine, come in ‘Ritratti’ e ‘Costellazioni’, e alla manipolazione durante i processi di stampa, come negli ‘Astratti’, o nelle opere più recenti e discusse del ciclo dei ‘Nudi’. Nei suoli lavori: interni domestici vuoti, scenari interplanetari, architetture, ma anche ritratti perfezionati in post produzione, partendo però dalle tecniche tradizionali della camera oscura. Celebre la serie dedicata alle ville di Mies Van der Rohe, immagini in cui gioca con la manipolazione digitale per mettere a fuoco le caratteristiche dell'architettura del maestro: le vetrate, per esempio, o le relazioni tra interno ed esterno. Ruff è nato nel 1958 a Zell am Harmersbach e ora vive e lavora a Dusseldorf. Tra le ultime mostre, ricordiamo le personali presso Art Gallery of Ontario (2016), S.M.A.K. in Belgio (2014), Museum of Contemporary Art di Chicago (2011) e molte altre in istituzioni internazionali. Nel 2006 ha ricevuto l’Infinity Award dall’International Centre of Photography of New York.

Nato nel 1973 in Argentina, vive e lavora a Berlino. I suoi progetti indagano forme costruttive radicali, sfidano la forza di gravità, sfiorando i limiti dell’impossibilità costruttiva, spesso ispirati alle ragnatele (foto in basso) come esempio di sofisticatissime micro costruzioni. A proposito dice: “Ogni volta che osservo ragnatele, non riesco ancora a credere come i ragni facciano un lavoro così straordinario e mi chiedo come apparirebbero senza gravità”. Il cosmo come geometria, vibrazioni e suoni, mappe di connessioni neurali del cervello che diventano sculture poliedriche sospese, modellate sulla forma di bolle di sapone: “In ogni disciplina vedo un nuovo universo”, aggiunge. Molto gli architetti e i teorici dell’architettura che l’hanno influenzato: da Frei Otto a Oscar Niemeyer; tanti anche i libri. Tra questi: Architecture Without Architects di Bernard Rudofsky e The Hidden Dimension di Edward T. Hall. Tomás Saraceno ha esposto in musei e manifestazioni di importanza internazionale: nel 2019 è stato alla Biennale di Venezia e fino al 19 luglio Palazzo Strozzi, a Firenze, ospita una sua grande mostra.

I suoi lavori consistono in carte da parati, ceramiche, stampe digitali su lino e velluto, paraventi, installazioni, sculture in bronzo, tendaggi che rimandano a immaginari, figure e forme esotiche, complesse, floreali. Il suo lavoro è spesso in relazione con lo spazio e l’architettura, i colori e le dimensioni dei lavori dialogano con essa e in qualche modo la modellano. “Avendo lavorato tanto con wallpaper, ho spesso pensato al mio lavoro come un lavoro piatto, dimenticandomi però che lo spazio non è piatto e una volta che il mio lavoro è installato ha una determinata volumetria”. Del design dice: “Mi è sempre interessato il suo uso e il fatto che sia più democratico, popolare, accessibile e maggiormente fruito dell’arte. Mi piace che possa entrare nelle case e mi piace che questo accada anche per il mio lavoro”. Tra le figure che lo hanno ispirato include Josef Frank e William Morris; si dice anche interessato “all’attitudine italiana dell’immediato dopoguerra con cui gli architetti coinvolgevano gli artisti senza alcun tipo di stigma rispetto al fatto che questi potessero disegnare delle maniglie o a un camino”. Tra i contemporanei, ama molto il lavoro di Konstantin Grcic. In previsione per quest’anno una mostra personale alla Galleria Francesca Minini di Milano, parteciperà poi alla mostra collettiva Migration al Janco-Dada Museum in Israele.

Nato a Buenos Aires nel 1961, vive e lavora tra New York, Berlino e Thailandia. Per lui fare arte significa mettere in discussione la dimensione sacra del museo, e l’idea di opera come feticcio, e coinvolgere il pubblico in modo diretto, per esempio cucinando in galleria o riproducendovi gli allestimenti di stanze, per invitare le persone a viverci. Nel 2018, ad Art Basel, con gli architetti tedeschi Hirsch e Müller e lo chef finlandese Antto Melasniemi realizza una grande installazione-sala da tè in bambù e acciaio cui i visitatori hanno libero accesso. Ha anche partecipato al progetto collettivo The Land, un gruppo di artisti uniti insieme per creare un campo di riso con edifici rivolti a varie funzioni, per lo stoccaggio, la coltivazione, la cucina, ecc. È intervenuto adattando, trasformando e dislocando monumenti della storia dell’architettura moderna, come la Kings Road House di Rudolph M. Schindler, la Glass House di Philip Johnson o il Seagram Building di Ludwig Mies van der Rohe, la Tropical House di Jean Prouvé. Dice, riferendosi all'architettura: “Mi piacerebbe pensarla come un luogo e poi capire il modo in cui funziona nel tempo". Il suo lavoro è stato esposto in sedi prestigiose come la National Gallery Singapore, il Stedelijk Museum di Amsterdam, la Tate Modern a Londra e il Centre George Pompidou a Parigi. Ma anche alla Biennale di Venezia.

Cosentina di nascita, vive e lavora a Parigi. Strutture tubolari, sedie, mobili da salotto, fusioni di cavi elettrici, materassi che diventano installazioni in dialogo con l’architettura. Esplorando i confini tra passato e futuro, presenza e assenza, realtà e finzione. All’insegna di un nuovo ready made. È lei a raccontarci: "Mi sono interessata al design degli anni '50 e '60, non per se stesso ma come parte di una ricerca specifica, che ho abbandonato da ben dieci anni. La sfida più importante per il design di oggi è smettere di produrre oggetti in abbondanza e non utilizzare più materiali che soffocano il pianeta. Vale per tutto il design, dal più modesto e quotidiano al più lussuoso”. Quanto all’architettura afferma: “Ho guardato molto quella brutalista, che in qualche modo si riferisce a una forma essenziale o sociale dell'uso dello spazio. Ma mi piace molto anche l'architettura sperimentale e radicale di Ugo La Pietra”. Quest’anno le vengono dedicate due mostre, a Le Printemps de Septembre (Tolosa, Francia) e al Broad Museum (East Lansing, Michigan).

Nato a Milano nel 1974, dove vive e lavora, racconta: “Ho sempre avuto una passione profonda per il design, per l’evoluzione del suo linguaggio e per la capacità di entrare nella vita privata delle persone. È spesso un riferimento, quando lavoro e progetto. Apprezzo moltissimo le ricerche a cavallo tra gli anni '70 e '80, ma ho sempre avuto un debole per gli allestimenti museografici degli anni '50 e '60. Quindi direi un clash tra Ettore Sottsass, Franco Albini, Carlo Scarpa, Vico Magistretti, BBPR e Superstudio”. Dell'architettura dice:“Il centro della mi ricerca è il rapporto tra l'individuo e il suo ambiente, quindi molto spesso è proprio il paesaggio urbano il luogo del mio lavoro o il soggetto su cui riflettere”. Di fatto, con la sua arte, Tuttofuoco indaga l’uomo, il corpo e il rapporto con la tecnologia; negli ultimi anni lavora sulla fluidità, sul superamento dei confini legati al genere e sull’abbattimento degli stereotipi: “L’arte ha il dovere di porre delle buone domande sul mondo che ci circonda, domande capaci di generare riflessioni che siano da stimolo all’evoluzione della società”. Ha esposto in molte manifestazioni internazionali , tra cui la Biennale di Venezia, Shangai , Havana, e a Manifesta.

Studio fondato nel 1995 da Joep van Lieshout (Ravenstein, 1963) per minare la mitologia dell’artista-genio e proporre un’arte in rapporto con il design, la produzione di massa di oggetti funzionali e l’architettura. Tra i progetti: uno stato indipendente nel porto di Rotterdam, durato un anno (‘AVL-Ville’, 2001), un’abitazione concettuale (‘Sportopia’, 2002). E poi installazioni tra fantasia, funzione, utopia, che hanno in comune una visione provocatoria. Nel lavoro dello studio c’è un lato ludico che si sviluppa attraverso sculture abitabili, o architetture scultoree, viste come possibilità di vivere in un mondo d’arte e fatto di arte. Temi ricorrenti nel lavoro di AVL sono l'autarchia, il potere, la politica, la vita e la morte. Ultime mostre, le personali a New York (2019) e al Design Museum di Londra (2018).

Da anni saldo tra gli artisti più influenti al mondo nella classifica di ‘ArtReview’, qui ritratto nell’allestimento per la Turandot al Teatro dell’Opera di Roma, con il suo lavoro scatena reazioni, denuncia e attacca governi, sposta l’attenzione su libertà di parola e diritti umani. Spesso le sue opere diventano installazioni da percorrere e il design degli oggetti che usa ha un forte significato politico, come i gommoni con cui ha ricoperto le finestre del piano nobile di Palazzo Strozzi a Firenze, o l’antico vaso della dinastia Han su cui ha riprodotto il simbolo della Coca Cola. Interessato a indagare le differenze culturali tra Oriente e Occidente, Ai WeiWei, cinese, nato nel 1957 ha esposto in musei e Biennali di tutto il mondo. E' anche architetto: nel 1999 ha progettato il suo studio a Caochangdi, nel nord-est di Pechino. Nel 2003, ha fondato la compagnia di architettura FAKE Design e nel 2008 ha firmato insieme allo studio di architettura Herzog e de Meuron lo stadio nazionale di Pechino.

Londinese, classe 1963, prima donna al mondo ad aver vinto, nel 1993, il prestigioso Turner Prize grazie a ‘House’, monumentale calco di una casa vittoriana londinese destinata alla demolizione. La sua è un’intima esplorazione di volumi e superfici di oggetti di uso comune, di mobili come comodini, armadi, letti, o di architetture: “Mi piace esplorare le cose in profondità. Negli anni ho realizzato calchi di molti spazi, dando autorità a ciò che normalmente viene dimenticato”. Del suo rapporto con il design rivela: “Penso che abbia a che fare con l'invenzione e il gioco e con il linguaggio che si porta avanti. Riguarda anche il domestico. È solo una parte della mia pratica ora, anche se a differenza di molti artisti gioco con la dimensione, ed è ciò che mi piace davvero fare”. Tra le ultime mostre la personale al Georgia Museum of Art ad Atene (2019) e alla National Gallery of Art di Washington (2018).